La storia del ventenne David, che dai prosciutti in salumeria vorrebbe passare a tagli e messe in piega, dà da riflettere.
ROMA - Quando un figlio ci ripensa e decide di licenziarsi per seguire studi o corsi di formazione che lo aiutino ad esercitare il mestiere che davvero vuole fare, i genitori - specie se il ragazzo è molto giovane ed ha avuto 'precocemente' l'esperienza lavorativa - non possono sottrarsi all'obbligo di riprendere a mantenerlo sostenendo che tale onere "non si ripristina in caso di abbandono del lavoro". A dirlo é la Cassazione con una sentenza che garantisce una chance a chi, magari poco più che adolescente, ha accettato il primo posto che gli è capitato, salvo poi scoprire di voler riprendere a studiare per trovare un'occupazione più adatta alle sue inclinazioni.
Il verdetto della Suprema Corte - in sostanza - non è a vantaggio dei figli eterni 'Tanguy' studenti, specializzandi o magari professionisti ma che non se ne vanno mai da casa, piuttosto è a favore dei ragazzi che troppo presto, forse anche per sfuggire alle difficoltà della separazione dei genitori, hanno smesso di coltivare le loro aspirazioni. In particolare i giudici del 'Palazzaccio' - con la sentenza 24018 - hanno respinto il ricorso di un padre, Salvatore L., che non voleva dare 300 euro mensili al figlio David di venti anni, dopo che il ragazzo si era licenziato dall'azienda nella quale, giovanissimo, prima come apprendista e poi come operaio, aveva lavorato come disossatore di prosciutti. Era stata la mamma separata del ragazzo a chiedere all'ex marito - che nel frattempo si era costruito una nuova famiglia e non aveva troppa voglia di limare il budget domestico - un contributo affinché il ragazzo potesse frequentare un corso per diventare parrucchiere, desiderio che aveva maturato durante gli anni passati a sezionare cosciotti.
Sia i giudici del Tribunale di Modena, nel marzo 2004, sia quelli della Corte di Appello di Bologna, nel dicembre dello stesso anno, dissero sì alla richiesta. Adesso, senza successo, Salvatore ha protestato in Cassazione per scrollarsi il peso di quell'assegno mensile. Piazza Cavour gli ha risposto picche dicendo che "non ha colpa il figlio che rifiuta una sistemazione lavorativa non adeguata rispetto a quella cui la sua specifica preparazione, le sue attitudini ed i suoi effettivi interessi siano rivolti, quanto meno nei limiti temporali in cui tali aspirazioni abbiano una ragionevole possibilità di essere realizzate, e sempre che tale atteggiamento di rifiuto (nel proseguire a lavorare) sia compatibile con le condizioni economiche della famiglia".
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