20 novembre 2009

Vota per la Terra!

"Vote Earth!", ovvero "Vota la terra", è la nuova campagna organizzata in tutto il pianeta dal WWF in vista del Vertice sul Clima che si terrà a Copenaghen a dicembre. Una volta tanto, grazie anche alle nuove tecnologie, chiunque ha la possibilità di far sentire la sua voce e invitare altre persone a far sentira la loro per ottenere un accordo globale sul clima.
Basta esprimere il proprio voto per aggiungere il proprio nome a quello dei milioni di persone che in tutto il mondo stanno sostenendo la campagna del WWF.
Anche Google ha dato il suo contributo per la raccolta dei voti.
A seguire trovate il widget che ha contribuito a creare. Ogni blogger può aderire all'iniziativa condividendo questo iFrame. Il codice del widget "Vote the Earth" lo trovate sul sito del WWF.
Votate e condividete!

7 novembre 2009

Einstein, l'enfant prodige che confuta il Male


Questo "innocente" video che ho scoperto tramite Facebook ha minato fortemente le mie convinzioni. Non religiose.
Non sono riuscita a riconoscere nel bambino spocchioso del video quell'Albert Einstein che ho studiato a lungo e di cui ero arrivata a delinearmi una figura abbastanza coerente e "familiare". Possibile che un bambino che fino a nove anni non era stato in grado di parlare speditamente, si fosse messo ad argomentare in quel modo?
Poi, l'illuminazione. Forse quella conversazione non era mai avvenuta. Forse.
Mi rivolgo a Snopes che di solito sa darmi delle risposte. Ovviamente non mi delude: leggete "Malice of absence" per saperne di più. Facendo un sunto, l'aneddoto semplicemente non compare nelle biografie di Einstein ed è simile a molte altre leggende metropolitane con protagonista uno stereotipato professore ateo.

Andiamo oltre. La domanda che mi pongo ora è: "Perché il governo macedone ha finanziato questo spot?". Leggiamo cosa compare alla fine: "Religion is science too. Bringing religion studies back to our school - Ministry of Education and Science of the Republic of Macedonia".
Qualcuno si è fatto delle domande su questo video e sulle sue motivazioni? Piuttosto che rassettare casa, io me le sono fatta. Ho trovato questo interessante articolo, del 27 agosto 2009: No Religion In Macedonian Schools
Si legge:
Controversial religious studies classes will not be reintroduced to Macedonian primary schools this school year, as the government fears the Constitutional Court will again intervene, Education Minister Nikola Todorov says.


In Italia, alla luce del dibattito sui voti all'ora (facoltativa) di religione e della sentenza della Corte europea dei Diritti dell'Uomo che ha richiesto la rimozione dei crocifissi dalle aule, questo video è diventato quasi una bandiera del connubio religione-scienza. La questione è molto più complessa. La cultura italiana è fortemente intrisa della sua religione di riferimento. Sono convinta che non sia possibile capire un popolo senza considerarne la religione, che determina per adesione o reazione determinati atteggiamenti e influenza il sistema valoriale. Sono anche convinta che finché non si trasformerà l'ora di religione in un'ora di teologia o di etica, e la si renderà obbligatoria, non potrà che essere un elemento di dibattito. Ricordo che alle elementari le lezioni di religione me le faceva il prete del paese. Andando a catechismo facevo il ripasso di quello detto a scuola. Le domande "scomode" non erano ben accette. Al liceo invece l'ora di religione - grazie anche a un insegnante particolarmente intelligente e preparato - era un interessante scambio di riflessioni sull'etica e sulle religioni, che ha lasciato qualcosa dentro un po' a tutti noi. Ai miei figli auguro di trovare un professore di religione come quello che ho avuto alle superiori, non un insegnante di catechismo.
Molto interessante l'approfondimento sull'insegnamento della religione nelle scuole che ho trovato nel sito della diocesi di Verona. Apprezzo soprattutto questo passo, che non posso che sottoscrivere:
ma non si può certo rallegrarci del fatto che molti oggi possano scegliere il nulla piuttosto che un’ ora in cui capire la radice della nostra cultura, magari per poter essere più liberi di dissentire (e più coscienti nell’aderire).

La libertà di dissentire è fondamentale. Dibattito puro e privo di preconcetti, appunto.
Lo sottoscrivo, ma mi domando come questo possa trovare conferma ad esempio nel licenziamento dei professori divorziati.
Il crocifisso in classe, dal canto suo, non fa male a nessuno. Un simbolo ha valenza per chi lo sa interpretare, non per gli altri. Non è un'offesa per gli atei e i non cristiani. E' un elemento di conforto per chi ne condivide il significato. Ma in uno Stato che spesso è laico solo sulla carta, dove l'ora di religione è laica ma deve avere la vidimazione della Chiesa, dove si fa ricorso alle scoperte della scienza quando fa comodo e le si mettono a freno in tutti gli altri casi, dove il confine tra la vita e la morte viene ridisegnato di volta in volta a seconda dell'interesse del momento, dove non tutte le religioni e le culture hanno pari dignità... dove insomma si è così accecati dalla propria cultura da calpestare quella altrui per partito preso, è facile che anche un simbolo di comunione finisca per dividere.
L'Italia non deve togliere il crocifisso da scuole e ospedali. Deve semplicemente riconoscere che ciò che è diverso non necessariamente è un nemico, ma può essere una ricchezza. Poi è solo una questione di buon senso.

Tornando all'argomento del video, vediamo un po' di ridare un fondamento storico e psicologico alla figura di Einstein. In questo bel sito c'è un'approfondita biografia: I giochi di Einstein.
Segnalo anche questo approfondimento (una wiki) sulla visione religiosa di Einstein (che ricordo proveniva da una famiglia di religione ebraica, anche se non molto praticante): la visione religiosa di Albert Einstein.

14 ottobre 2009

Il web 2.0 crea le notizia. Il caso della morte (falsa) di Bruno Pizzul. E del gatto ferito da Zack Efron

Bruno Pizzul è morto, per qualche ora, nel web. Cronaca di un "assassinio" - ovviamente virtuale - compiuto dal web 2.0.

Questa mattina, mentre ero sprofondata nella revisione di un documento Seo di una cinquantina di pagine, mi bussano in messenger. Notizia secca: "E' morto Pizzul! :(".
Non ho contatti appassionati di necrologi. Semplicemente la mia venerazione per Bruno Pizzul è abbastanza nota. Ha rinconfermato il suo valore anche questa mattina, quando ha scherzato sulla sua "scomparsa" e si è congedato rapidamente dal giornalista che aveva interrotto la sua partita a scopa mattutina. Un mito.
Chiusa questa parentesi, ritorniamo al mio messaggio in messenger. Dopo averlo letto mi sono subito rattristata pensando di non poter più sentire i suoi interventi, di non poter più seguire le sue conferenze.
Mi sono collegata subito all'Adnkronos. Niente. Al Corriere.it. Niente. All'Ansa. Niente.
Ricerchina lampo in Google News e trovo solo un articolo de Il Giornale del Friuli che ne dà l'annuncio. Ma la pagina non funziona.
Faccio la prova del nove. Wikipedia. Wikipedia sembra avere un referente nell'Aldilà perché è sempre tra i primi a dare gli annunci mortuari. Basta un lancio di agenzia e loro - prontamente - aggiungono la data di morte. Davvero lodevoli.
Comunque sia, nel giro di 3 minuti etichetto la notizia come bufala, mi auguro che non porti sfiga a Pizzul e mando a quel Paese il mio contatto che mi aveva disturbata senza neppur aver prima verificato le fonti. Risprofondo nel Seo fino ai gomiti.
A distanza di qualche ora, in conclusione della pausa pranzo, guardo gli aggiornamenti. Sia mai che ho preso una cantonata! Scopro così che tutti hanno ripreso la notizia, confermandone fortunatamente l'infondatezza.
Il Giornale del Friuli - testata registrata al Tribunale di Udine da cui si potrebbe pretendere una certa attendibilità - ha pubblicato la "rettifica" che trovate qui: Storia di una bufala. La finta morte di Bruno Pizzul
Ecco alcuni estratti:
A questo punto sono le ore 10.24 e riceviamo un sms in cui ci comunicano che Bruno Pizzul è morto. Effettuiamo una rapida ricerca su internet e scopriamo che ci sono numerosi siti che affermano un tanto, in particolare su yahoo rinveniamo le tracce di uno scambio di messaggi tra… testimoni oculari. Una signora o ragazza afferma che una ambulanza si è fermata sotto casa di Bruno. ‘Dicono sia morto’ o qualcosa di simile. Persino Wikipedia ha già aggiornato la pagina.
In perfetta buona fede pubblichiamo la notizia della morte di Bruno Pizzul. Le funzionalità del nostro giornale consentono qualsiasi modificazione nel giro di un istante, ma non avevamo fatto i conti con gli ’spider’ e le ‘indicizzazioni’ di Google News che intercettano la nostra notizia e la rendono disponibile sul motore di ricerca se uno digita ‘Bruno Pizzul’.
Ciò nel giro di alcuni… millisecondi (potenza di internet).
Infatti già alle 10.34 lo stesso nostro collaboratore via sms ci dice ‘Notizia morte Pizzul va verificata’, fino a ‘freddarci’ alle 10.46 con un ‘Pizzul è vivo’.
[...]
Ecco la differenza tra web giornalismo e stampa tradizionale. Noi abbiamo commesso un unico errore, quello di non aver fatto i conti con Google News che ci ha ‘ripreso’ ed enfatizzato la nostra prima notizia pochi secondi dopo che l’avevamo pubblicata.
E poco conta che noi, 20 minuti dopo, l’abbiamo rimossa.
E adesso con chi ce la pigliamo? Con Google? Con Internet? Col Grande Fratello?

Ho lavorato abbastanza come giornalista, prima per la carta stampata e poi per il web, per poter fare un lungo elenco di errori della redazione (anche alcuni di ortografia, ma quelli ignoriamoli, nella foga scappano sempre).
In primo luogo avrebbero dovuto correggere l'articolo pubblicato, e non cancellarlo, in modo che la "replica" fosse subito reperibile (visto che il coccodrillo era già indicizzato).
Il problema però sta a monte. L'errore, enorme, gravissimo, tanto più per una testata registrata che dovrebbe essere più autorevole - ad esempio - del blog in cui sto scrivendo, è che i fatti vanno sempre verificati. Non puoi verificare personalmente i fatti? Immagino non sia sempre possibile andare a casa di Pizzul o contattarlo telefonicamente. Allora entrano in gioco le fonti.
E' morto d'infarto? Si deve chiamare l'ospedale se è noto. O qualche amico. O il sindaco del suo Paese. Non "una signora o ragazza afferma che una ambulanza si è fermata sotto casa di Bruno" e che scrive su Yahoo. Che credibilità può avere? E anche se fosse, potrebbe essere in ospedale, non defunto!
Su Virgilio hanno anche ricordato che bastava controllare sul sito della Figc l'assenza del proclamato "minuto di silenzio per Pizzul". Una chicca che ammetto non mi era venuta in mente.

Qualsiasi giornalista - web di sicuro, ma penso anche tradizionale - è ben consapevole che gli UGC e i social media non sono fonti attendibili. Possono essere spunti. Possono essere oggetto di articoli. Possono generare fenomeni. Ma non sono fonti attendibili. Non per cercare di battere sul tempo l'Ansa alla voce necrologi.
Ho anche trovato peggiore la giustificazione della cantonata presa. Se avessero pubblicato per errore un coccodrillo (era la mia ipotesi iniziale) ci sarebbe potuto anche stare. Con alcuni cms, soprattutto di vecchia concezione, errori di questo tipo sono davvero all'ordine del giorno. Ma non è andata così.
Pazienza, non è successo nulla di grave. Pizzul l'ha presa bene. Ha avuto tante manifestazioni di affetto in Rete (che avrà ignorato perché mi pare di capire che non usa internet). E il sito in questione avrà avuto un picco di visite.
Spero solo che abbiano imparato la lezioni e che non si comportino in modo altrettanto superficiale (perché di superficialità si sta parlando, se non proprio di inesperienza) con altre notizie, magari più delicate. L'Ordine dei Giornalisti friulano dovrebbe fare una tiratina d'orecchi al direttore responsabile. L'Italia ha bisogno di informazione, non di disinformazione dovuta a scarsa attenzione nella selezione delle notizie e delle fonti.

Le notizie inaffidabili che circolano in Rete mi fanno imbestialire (come ben sanno i fan della mia pagina su Facebook, che ringrazio). A volte basterebbe un po' di buon senso per evitare tanta spazzatura. Se le catene di Sant'Antonio o le notizie false vengono spacciate per vere dalle testate giornalistiche, abbiamo qualche problema.

Se Facebook non è attendibile (come non lo sono le mail di spam che ogni tanto ci intasano la posta), perché il giornale XYZ che prende la notiza da Facebook è considerato attendibile? Non è la notizia che fa la differenza, ma l'autorevolezza della fonte. Se una fonte considerata autorevole dà una notizia falsa, che succede? Si crea una verità parallela, mediatica? In fin dei conti spesso conta più quello che crede la maggior parte della gente, di ciò che è davvero successo.
Prendete ad esempio il caso di Zack Efron, che molti - in Italia - accusano di aver sparato a un gatto in Australia. Una bufala cosmica.
La fonte di tutto era l'articolo "Zac Efron Shoots Cat 13 Times in the Head" che ora si apre con il disclaimer "THIS IS NOT A REAL NEWS SITE, FOR THE LOVE OF GOD! IT’S A JOKE, PEOPLE!".
Comunque non serviva scriverlo. Bastava leggerlo per capire che frasi come
according to a source close to the cat who we met at the bus station.
[...]
“This is just a shocking incident where Zac Efron either working alone or in a group, perhaps with the rest of the High School Musical cast, has shown no regard for animal life and left Smokey for dead,” Solvang said.
[...]
Nevertheless, police have suggested the only way this type of cruelty ends is if attitudes change. They explained that the general consensus among young male actors is that cats are feminine creatures, and there’s nothing young actors hate more than females.

non possono essere serie.
E pensate che la notizia è stata ripresa perfino dal sito di Striscia la Notizia.
Non parliamo poi di Libero.it, che ha condito il racconto con maestria, per far imbestialire gli utenti. L'articolo si intitola "Zac Efron spara 13 volte a un gatto. Padrona sotto choc" e ha raccolto 800 commenti di animalisti giustamente inferociti, convinti che Efron fosse il solito bamboccio viziato privo di qualsiasi buon senso.

Mi domando cosa possano scrivere i portali leggendo quello che si dice sui social media di Giovanni Rana, morto per il web da qualche anno. Sono i fantasmi e le nuove verità della realtà parallela, anzi realtà 2.0?

Cronaca di una morte (falsa) annunciata dal web 2.0


Questa mattina, mentre ero sprofondata nella revisione di un documento Seo di una cinquantina di pagine, mi bussano in messenger. Notizia secca: "E' morto Pizzul! :(".
Ci tengo a sottolineare che non ho contatti appassionati di necrologi. C'era un motivo se ero stata avvisata. Da anni ho una sorta di venerazione per Bruno Pizzul. Venendo dalle sue stesse terre ho avuto modo di seguire alcune sue conferenze. E' una persona squisita, umana e affabilissima. Non segue il Web, come oggi ha avuto modo di ribadire al giornalista dell'Ansa che si accertava sul suo stato di salute, e mentre in molti soffrivano per la sua dipartita, si stava facendo una bella partitina a carte, come ogni mattina.
Chiusa questa parentesi, ritorniamo al mio messaggio in messenger.
Mi sono collegata subito all'Adnkronos. Niente. Il Corriere.it. Niente. L'Ansa. Niente.
Cerco in Google news e trovo solo un articolo de Il Giornale del Friuli che ne dà l'annuncio. Ma la pagina non funziona.
Faccio la prova del nove. Wikipedia. Wikipedia sembra avere un referente nell'Aldilà perché appena c'è un decesso subito appare la data di morte. Complimenti per la prontezza dei collaboratori o degli internauti.
Comunque sia, etichetto la notizia come bufala, mi auguro che non porti sfiga a Pizzul e mando a quel Paese il mio contatto che mi ha rattristata inutilmente e torno al mio documento Seo.
A distanza di qualche ora ho poi scoperto che tutti hanno ripreso la notizia, confermandone l'infondatezza.
Il Giornale del Friuli - testata registrata al Tribunale di Udine da cui si potrebbe pretendere una certa attendibilità - ha pubblicato una "rettifica" che trovate qui:
Storia di una bufala. La finta morte di Bruno Pizzul
Ecco alcuni estratti:
A questo punto sono le ore 10.24 e riceviamo un sms in cui ci comunicano che Bruno Pizzul è morto. Effettuiamo una rapida ricerca su internet e scopriamo che ci sono numerosi siti che affermano un tanto, in particolare su yahoo rinveniamo le tracce di uno scambio di messaggi tra… testimoni oculari. Una signora o ragazza afferma che una ambulanza si è fermata sotto casa di Bruno. ‘Dicono sia morto’ o qualcosa di simile. Persino Wikipedia ha già aggiornato la pagina.
In perfetta buona fede pubblichiamo la notizia della morte di Bruno Pizzul. Le funzionalità del nostro giornale consentono qualsiasi modificazione nel giro di un istante, ma non avevamo fatto i conti con gli ’spider’ e le ‘indicizzazioni’ di Google News che intercettano la nostra notizia e la rendono disponibile sul motore di ricerca se uno digita ‘Bruno Pizzul’.
Ciò nel giro di alcuni… millisecondi (potenza di internet).
Infatti già alle 10.34 lo stesso nostro collaboratore via sms ci dice ‘Notizia morte Pizzul va verificata’, fino a ‘freddarci’ alle 10.46 con un ‘Pizzul è vivo’.
[...]
Ecco la differenza tra web giornalismo e stampa tradizionale. Noi abbiamo commesso un unico errore, quello di non aver fatto i conti con Google News che ci ha ‘ripreso’ ed enfatizzato la nostra prima notizia pochi secondi dopo che l’avevamo pubblicata.
E poco conta che noi, 20 minuti dopo, l’abbiamo rimossa.
E adesso con chi ce la pigliamo? Con Google? Con Internet? Col Grande Fratello?

Ho lavorato abbastanza come giornalista, prima per la carta stampata e poi per il web, per poter fare un lungo elenco di errori della redazione.
In primo luogo avrebbero dovuto correggere l'articolo pubblicato, e non cancellarlo, in modo che la "replica" fosse subito reperibile (visto che il coccodrillo era già indicizzato).
Ma il problema sta a monte. L'errore - enorme, gravissimo, tanto più per una testata registrata - è che i fatti vanno sempre verificati. Non puoi verificare personalmente i fatti? Allora entrano in gioco le fonti.
Su Virgilio hanno anche ricordato che bastava controllare sul sito della Figc l'assenza del proclamato "minuto di silenzio per Pizzul". In effetti così si risparmiavano pure il costo della chiamata...
Qualsiasi giornalista - web di sicuro, ma penso anche tradizionale - è ben consapevole che gli UGC e i social media non sono fonti attendibili. Possono essere spunti. Possono essere oggetto di articoli. Generano fenomeni. Ma non sono fonti attendibili. Ci deve essere qualcuno che applica un filtro e che sbugiarda eventuali mitomani o allarmisti.

Prendete ad esempio il caso di Zack Efron, che molti - in Italia - accusano di aver sparato a un gatto in Australia. Fate una ricerca con "efron sparato gatto" e con "efron shot cat". Le reazioni degli animalisti sono state scatenate da un pezzo in lingua inglese così assurdo che perfino un bambino si sarebbe accorto che era satirico. Ma così non è stato e il sito si è visto costretto a rettificare e a spiegare che era uno scherzo. In Italia non hanno neppure perso tempo a rettificare. Tanto il clamore si era già scatenato, chissene frega del resto.
Comunque sia, in questo caso non è successo nulla di grave. Pizzul l'ha presa bene e i suoi fan sono stati contenti nel saperlo intento a giocare a carte. E il sito "allarmista" avrà avuto un picco di visite. Vincono tutti. Tranne che l'informazione.

13 ottobre 2009

Il ruolo delle donne in Italia

Ho scoperto guardando l'Infedele che Striscia la Notizia ha replicato all'accusa di aver contribuito alla desolante immagine della donna in Italia. In realtà c'è anche altro. Gad Lerner ha accusato Antonio Ricci di essere "il Dante Alighieri del berlusconismo". Ovviamente la replica di Ricci non si è fatta attendere, nonostante sia pronta a scommettere che buona parte del pubblico di Striscia la Notizia ignori l'esistenza di un programma intitolato "L'Infedele" che va in onda in una rete minore, considerata un po' di cultura e snob (e quindi noiosa). Avrei ignorato questa bagarre, se non fosse stato per la replica delle due Veline.
Ecco il video:

Due osservazioni:
- le Veline dimostrano la loro indipendenza di pensiero e tutto il loro valore recitando a memoria i testi scritti da altri. Si sono però impegnate, apprezziamo lo sforzo.
- Striscia la Notizia si definisce "varietà" e non "tg satirico" e superpartes. Ricordo, se non altro perché la notizia è abbastanza recente, che il Gabibbo era presente in piazza del Popolo a Roma alla manifestazione per la libertà di informazione. L'Unione Sarda ne parla in questi termini:
... il Gabibbo, accolto da star, ha fatto foto con grandi e piccini mostrando un cartello con la scritta, su un lato "più di 250 denunce" e sull'altro "Il Tg che vanta il maggior numero di tentativi di limitazione".

Qui trovate l'intero articolo.
Quindi non è sempre varietà, a volte è Tg... Ma solo a volte. Quando fa comodo, mi verrebbe da dire...
Dal suo blog, Gad Lerner ha replicato direttamente alle Veline.
se fossi un battutista come il vostro datore di lavoro Antonio Ricci me la caverei esultando: dopo 21 anni di silenzio (telepromozioni a parte) c’è voluta la denuncia dell’Infedele per dare finalmente la parola alle Veline! Ma non sarei sincero. Il vostro videomessaggio ammiccante, con le solite finte risate in sottofondo, mi ha messo tristezza.

A leggere i commenti su Youtube e Facebook quel messaggio non ha messo tristezza solo a lui. Ha messo tristezza un po' perché palesemente finto. E un po' perché, come è già successo, Ricci utilizza il suo programma per fare guerra a detrattori e concorrenti (non è il caso di Lerner, che credo abbia uno share che non solletica neppure Striscia la Notizia; però è il caso di "Affari tuoi" e della lotta senza quartiere a Bonolis che mi ha fatto smettere di guardare per sempre Striscia la Notizia).

Passiamo al vero argomento di questo post. Qual è il ruolo della donna in questo Paese? Me lo domando spesso. Delle donne si parla tanto e in modi molto diversi fra loro. Vittima nei casi di violenza, strumento di potere quando viene usata come merce di scambio, elemento coreografico in alcuni contesti, raramente essere senziente, soprattutto se di bell'aspetto. Uomini e donne continuano a essere considerati in modo diverso sul lavoro e nella vita di tutti i giorni.
Negli scorsi mesi ho avuto modo di vedere il tanto discusso documentario "Il corpo delle donne".
Se lo volete guardare (ne vale la pena) lo trovate a questo indirizzo: www.ilcorpodelledonne.net
...la cancellazione dell’identità delle donne sta avvenendo sotto lo sguardo di tutti ma senza che vi sia un’adeguata reazione, nemmeno da parte delle donne medesime

Il quadro che viene tracciato della televisione italiana (e della società italiana in genere) è desolante. E' desolante soprattutto pensando che autori televisivi come Cesare Lanza non considerino la tv uno specchio deformante, ma un riflesso attendibile della realtà. Realtà e televisione si condizionano a vicenda, in un'asta al ribasso.
Che impatto può avere tutto questo sulle nuove generazioni? Agghiacciante, segnalano da più parti. Ma non sono ancora tra i catastrofisti.
L'altro giorno, ad Annozero, ho visto l'intervento di una ragazza di 14 anni, Cecilia Sala, che parlava di mafia con lucidità e coraggio.

Forse il rinnovamento riparte da qui...

19 settembre 2009

Facebook, quando i fan vengono mercificati


Facebook da tempo si è aperto alle aziende. Le pagine sono state create proprio per promuovere marchi e prodotti, con un dichiarato intento commerciale. A tale scopo, i fan sono invitati a NON creare pagine, che dovrebbero essere invece lasciate alla voce ufficiale dell'azienda. Ma che succede quando una fan page ha migliaia di fan? La pagina "ufficiale" può richiederne la chiusura e richiedere anche che d'imperio i fan di quella pagina le vengano annessi. Le opzioni dell'azienda sono riassunte in questo articolo: How Do You Treat a Fan Who Owns Your Facebook Page?
Mi pare corretto che l'azienda sia la voce ufficiale del prodotto. Sta a lei decidere come trattarlo e cosa comunicare. E ha un'occasione privilegiata per interagire con i suoi fan e capire di più circa ciascuno di loro. Sta all'azienda utilizzare la pagina nel modo corretto. Per i fan ci sono i gruppi.
Ma come si deve comportare una pagina ufficiale nei confronti di un'altra non ufficiale? O, ancora peggio, nei confronti di un'altra ufficiale ma di un altro Paese? Con un'annessione? E i fan come reagirebbero?

L'ho vissuta sulla mia pelle di recente. Senza fare nomi, poniamo caso che una grande azienda, che opera in molti Paesi diversi, abbia varie pagine prodotto ciascuna nella lingua del suo Paese. Le pagine si chiamano tutte allo stesso modo. Poniamo caso che una mattina la pagina americana, forte anche dei suoi più numerosi fan, chieda a Facebook di far chiudere le altre, comunque create dall'azienda.
Nel caso che ho avuto modo di seguire, la pagina italiana è stata chiusa (senza per altro che nessuno ne avesse ricevuto preventiva comunicazione) e i suoi fan inglobati in quella americana.
I fan italiani - decisamente attivi rispetto a quelli delle altre nazioni - quando non hanno più ritrovato la loro vecchia pagina e si sono trovati iscritti a una completamente diversa, multilingue, priva di tutti i contenuti e gli eventi che loro stesso hanno contribuito a creare, si sono sentiti venduti e hanno iniziato a disiscriversi. Fortunatamente, grazie a una grossa mobilitazione della multinazionale, la pagina italiana è stata ripristinata in pochi giorni. In caso contrario sarebbero stati buttati alle ortiche mesi di lavoro e cospicui investimenti.

Le colpe di Facebook:

Facebook ha un'enorme colpa: emette la sentenza senza prima compiere un processo. Questo è grave nel caso dei profili personali ma diventa gravissimo per le pagine commerciali, dal momento che ai disagi e alla perdita di tempo si somma un danno economico. E se quella pagina fosse stata oggetto di una campagna advertising tradizionale? Le campagne su Facebook sono state in automatico disattivate, ma le altre? Abbastanza discutibile la scelta poi di chiudere la pagina senza preavviso e senza fornire le reali motivazioni: viene solo inviato un messaggio generico, a chiusura avvenuta, in cui si parla di violazione dei termini per l'assenza di autorizzazione, razzismo, discriminazione di gruppi, violazione del copyright e via dicendo. Un messaggio preimpostato con tutte le cause possibili. Il motivo vero della punizione? Non è dato saperlo.
Non sapendo la motivazione è stato anche difficile capire che cosa fosse successo ai nostri fan. Fortunatamente ci siamo in breve accorti che tutte le altre pagine simili alla nostra erano sparite nella ricerca, mentre quella americana vantava un numero crescente di fan. E' bastato entrarvi per scoprire che tutti i fan italiani erano stati inglobati e si stavano già domandando cosa stesse succedendo.
Altro limite di Facebook il fatto di non avere un regolamento semplicemente consultabile. Non c'è una Wiki aggiornata e completa, neanche in lingua inglese. E' tutto frammentato. Le informazioni vanno ricercate in vari punti, passando per decine di link. Nel messaggio di avviso della cancellazione della pagina non viene neppure fornito un link per segnalare l'eventuale ingiustizia subita. C'è solo un riferimento ai termini del servizio. Bello sforzo!
Altro limite, il fatto di non rendere evidenti i moderatori o i creatori della pagina, bloccando di fatto qualsiasi comunicazione. Basterebbe anche un riferimento anonimo, come un "contatta l'amministratore".

Le colpe di chi annette.

Ce ne sono varie. Prima di segnalare una pagina come "non autorizzata", tanto più nel caso di multinazionali, sarebbe bene contattare gli amministratori (anche se non è facile) o contattare le sezioni nazionali prima di prendere decisioni simili. Soprattutto nel caso di pagine ricche come la nostra, con eventi in corso e decine di conversazioni attive quotidianamente.
Lo stesso Facebook consiglia di non accorpare i fan di altre pagine e - nel caso si decida di farlo - di comunicare la decisione in modo chiaro.
Quando abbiamo creato la pagina per il nostro prodotto, esistevano già dei gruppi e delle pagine non ufficiali. La nostra scelta, che anche alla luce di questa vicenda non posso che sostenere, era stata di segnalare l'esistenza della nuova pagina ufficiale e di lasciare ai singoli utenti qualsiasi decisione. Forti dei nostri contenuti esclusivi, che solo grazie all'appoggio della casa madre avremmo potuto ottenere, non avevamo grossi dubbi che alla fine gli utenti spontaneamente sarebbero diventati nostri fan. Così è stato. La pagina italiana è quella con il maggior numero di fan tra le pagine prodotto Europee. E' seconda solo a quella americana, che però si è fatta strada con tecniche non proprio corrette, come si è visto. Quanto a interazioni nella pagina, è al primo posto, a dimostrazione del fatto che non basta "fare numero". La qualità delle interazioni è una spinta notevole all'adesione di nuovi fan. Vi iscrivereste mai a una pagina che non viene aggiornata da mesi e in cui nessun utente scrive nulla? No, soprattutto se vi state iscrivendo per chiedere pareri o consigli.
Il problema vero in questo caso è legato all'utilizzo che i fan facevano della pagina. Non tutti utilizzano le pagine Facebook in questo modo. C'è chi si iscrive per segnalare il proprio interessamento al prodotto e poi si dimentica della pagina. Io personalmente mi sono iscritta a pagine che non ho nemmeno mai aperto, semplicemente perché le ho trovate tra i suggerimenti e mi piacevano. Ora, è ovvio che con un approccio di questo tipo, pagine nazionali o sovranazionali è lo stesso. Se è un modo di manifestare interessamento per il prodotto, basta che il prodotto sia lo stesso. Il problema vero che si è verificato in questo caso è che gli americani non hanno considerato l'uso che i fan facevano della pagina italiana. Per loro era un forum privilegiato. Non è difficile capirlo: si guardano gli eventi in corso, le discussioni, le foto postate dagli utenti. Bastava guardare la pagina per capire che non aveva senso chiuderla, al di là che fosse ufficiale: senza la possibilità di dialogare i fan si sarebbero disiscritti e sarebbero andati a cercarsi un nuovo spazio di discussione. Questa forse è la cosa più grave dell'intera operazione: far scappare i fan anziché farli sentire più uniti e numerosi. Un brutto errore di calcolo, dovuto a una leggerezza o a un approccio troppo unidirezionale a Facebook. In ogni caso da non prendere come esempio.

L'annessione di fan altrui non è così inspiegabile. Le aziende troppo spesso guardano i risultati solo in termini di numeri e così facendo non fanno altro che promuovere questi comportamenti. Ci sono aziende che nel creare una pagina si propongono obiettivi di marketing che non funzionano coi social network. Non puoi creare una pagina e dire "Voglio ottenere 15mila fan in 6 mesi o la chiudo" perché potrebbe essere un errore. Magari in 6 mesi ne raggiungi 3mila e poi nei 6 mesi successivi arrivi a quota 20mila. Bisogna creare relazioni. Con un amico non diresti mai "diventiamo amici in una settimana o lasciamo perdere". Perché dovresti farlo coi fan? Le aziende, nell'approcciarsi a Facebook, dovrebbero considerare l'importanza delle relazioni, più che il numero. Soprattutto se non si vendono beni di largo consumo, come saponette o deodoranti. Bisogna dare tempo al tempo e iniziare a valutare anche altri aspetti, come la qualità delle interazioni o la bontà dei commenti. Troppo difficile? Certo i numeri sono più semplici. 10.000 buono, 100 non buono. Ma sei quei 100 fossero degli opinion leader? Degli endorsers entusiasti? Bisogna avere rispetto e coccolare anche quei cento e aspettare che diventino diecimila.
Torniamo agli errori di comunicazione della pagina americana. I fan si sono sentiti presi in giro e "mercificati" e hanno iniziato a disiscriversi. Non un aggiornamento di status è stato fatto per spiegare cosa fosse successo. E questo ha solo peggiorato le cose. Tra l'altro solo loro avrebbero potuto avvisare tutti gli utenti. Un messaggio in bacheca postato da un fan può essere visto solo da coloro che accedono al wall, non viene pubblicato sulle bacheche dei fan. Comunicare con tutti gli italiani era quindi davvero difficile.
Prendiamolo come esempio di cosa non fare in Facebook. Se vi capitano delle pagine "non ufficiali" non decapitatele. Cercate di entrare in punta di piedi, anche se si parla del vostro prodotto.
Ovviamente tutto il mio ragionamento fa riferimento a pagine create da appassionati. Se vi capitano pagine che danneggiano l'immagine del vostro prodotto o che la sfruttano per loro guadagni, beh... In quel caso l'annessione dei fan è più che legittima. Ma mi raccomando di avvisarli di cosa è avvenuto, lasciandoli liberi di decidere o meno se attribuirvi la loro preferenza.
I fan non sono merce di scambio.

Ultimo consiglio sulla comunicazione nei social media.

Se si teme il dialogo e se si considerano gli utenti, che in Facebook si presentano con nome e cognome, con i loro amici e con le loro preferenze... insomma come persone, alla stregua di numeri in un report di marketing, forse è il caso di lasciare perdere i social media. Non è una visione romantica del social media. E' molto pratica. E' solo un approccio diverso alle metriche di misurazione dei risultati. I nuovi parametri non mancano. Solo che sono qualitativi e non quantitativi.

6 settembre 2009

Maneki neko, da statuetta a tatuaggio portafortuna

maneki neko
Approfitto della richiesta di un lettore per dedicare un post ai tatuaggi che hanno come protagonista il Maneki neko, il gatto portafortuna tradizionale giapponese.
Per chi non ne avesse mai sentito parlare, ecco una breve introduzione presa da Wikipedia:
Maneki neko (letteralmente "gatto che ti chiama"; anche noto come "gatto che dà il benvenuto", "gatto della fortuna", "gatto del denaro") è una diffusa scultura giapponese, spesso fatta di porcellana o ceramica, che si ritiene porti fortuna al proprietario. La scultura raffigura un gatto che chiama con un cenno di una zampa alzata, e di solito viene esposta in negozi, ristoranti, sale di pachinko e altre attività commerciali; è anche usata come amuleto shintoista. Se la zampa alzata è la destra dovrebbe attirare il denaro, la sinistra i clienti. Esistono Maneki neko di diversi colori, stili e gradi di ornamento. Oltre che come statuetta, Maneki neko si può trovare come portachiavi, salvadanai, deodoranti, e altri oggetti. La razza di gatto rappresentata dalla statuetta è generalmente un bobtail giapponese.

Il Maneki neko si può ritrovare in molte forme nei tatuaggi, non sempre fedeli all'iconografia tradizionale. Ironia gioca spesso un ruolo fondamentale.
Ecco una carellata delle più belle immagini. Cliccate sulla foto per averne un ingrandimento.
maneki_neko_tattoo

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Leggi gli altri post sui tatuaggi: troverai suggerimenti, spunti sui soggetti, consigli sulla salute e sui metodi per conservarli brillanti il più a lungo possibile.

5 settembre 2009

Come promuovere i brand con Twitter


Sempre dal Razorfish Social Media Report 2009, eccoi 10 step che le compagnie dovrebbero seguire per controllare i loro brand su Twitter e stabilire una presenza duratura:
  1. Prendi familiarità con Twitter facendo rassegne o seguendo le attività di brand di successo come Dell (dell.com/twitter), Zappos (twitter.com/zappos) e Comcast (twitter.com/comcastcares);
  2. Presta attenzione a cosa è già stato detto su Twitter a proposito del tuo brand;
  3. Identifica gli obiettivi iniziali dell’utilizzare Twitter, incluso che cosa potrebbe qualificarsi come “Twitter success story” per il tuo marchio;
  4. Esamina le attività competitive e le possibili considerazioni legali, specialmente se c’è già un account Twitter che usa il nome del tuo brand o di altre proprietà intellettuali associate a esso;
  5. Usa tutto ciò che hai scoperto per decidere un’appropriata strategia che potrebbe essere giusta per il tuo brand (dovrà comprendere ad esempio la costruzione di una community, il tono di voce e i metodi di engagement);
  6. Dal momento che Twitter è un’attività in corso – anche se la tua azienda sta solo ascoltando il social network – dedica una risorsa a monitorare le conversazioni e i competitors;
  7. Delinea un piano per i contenuti che condividerai, includendo contenuti inizialmente di grande valore per richiamare l’interesse degli utenti;
  8. Integra il tuo account Twitter con la tua esperienza nel marketing, includendolo come feed nel sito dell’azienda, includendone la url nelle comunicazioni e così via;
  9. Mantieni lo slancio seguendo chiunque ti segua, rispondendo alle domande e partecipando a conversazioni senza essere troppo marketing oriented;
  10. Fornisci valore attraverso i tuoi tweet continuando ad ascoltare, imparare e migliorando il tono delle tue attività.


I punti 5, 6 e 7 sono fondamentali. Un brand che crea un account Twitter senza rispondere ai post dei follower si trovano la reputazione macchiata dalla loro incapacità di usare Twitter nel modo migliore.
Dall’altro lato, i marchi che hanno utilizzato Twitter nel modo corretto, ne sono stati anche ripagati.
Per esempio, Dell ha usato uno dei suoi feed Twitter per promuovere dei discount e ha ottenuto oltre 2 milioni di dollari grazie ai suoi follower su Twitter.

29 agosto 2009

Come i social media cambiano l'approccio ai brand: il parere di Razorfish

La comunicazione aziendale sta cambiando. Da tempo le aziende vengono invitate a smettere di pensare la comunicazione come un flusso unidirezionale. Ora, con la diffusione di internet e di nuovi modi di approcciarsi ai brand da parte del pubblico, l'invito è quasi diventato un imperativo. I clienti vogliono dialogare con le aziende. O meglio ancora, con altri clienti. Peccato che molte aziende non accettino questa rivoluzione. Molte gnorano il web, altre lo consirano una grana.
Eppure è uno strumento utilissimo per i "consumatori".
Quanti, come me, prima di ogni acquisto o quasi controllano che se ne dice in Rete e - soprattutto - controllano i prezzi per sapere se quello praticato dal negoziante è conveniente?
Gestisco online una pagina Facebook per un'azienda automobilistica. Almeno una decina di utenti hanno dichiarato di essersi convinti dell'acquisto dopo aver letto i commenti entusiasti degli altri fan. Gli altri acquirenti lo hanno convinto a spendere migliaia di euro. Una buona recensione del pubblico vale molto di più di tanta pubblicità. La pubblicità, oggi come oggi, è utilissima a far conoscere i prodotti e a rafforzare la brand image. Ma il processo di acquisto fa sempre più spesso tappa in internet.

A sostenere l'importanza dell'ascolto e della partecipazione nei Social Media per migliorare le immagini dei brand troviamo la Razorfish, che anche quest'anno ha presentato il suo “The Razorfish Social Influence Marketing Report”. Il report è un invito rivolto alle aziende perché smettano di inviare solo messaggi pubblicitari, ma inizino a “fare” qualcosa con gli utenti: a interagire, a dialogare, a creare relazioni.

Partiamo dal principio.
What is Social Influence Marketing?
Social Influence Marketing (SIM) is about employing social media and social influencers to achieve the marketing and business needs of an organization.


Per indicazioni sul panel e sulle metodologie di analisi ed elaborazione dei dati, vi rimando al documento originale.
Mi limiterò a evidenziare alcuni aspetti particolarmente interessanti emersi dal report.
In generale il report può essere sintetizzato in questa frase:
traditional top-down branding will become increasingly impotent as social media grows


che si traduce, per i brand, nella necessità di:
  • socializzare con i consumatori, ovvero prendere parte alle conversazioni, utilizzando una molteplicità di canali, ed effettuare con loro scambi di valore significativo;
  • sviluppare una credibile “voce sociale”, che sia più coinvolgente, personale, umile, autentica e partecipativa di quella delle pubblicità tradizionali;
  • fornire un ritorno in termini di emozioni ai consumatori: i social media sono un ottimo strumento per sviluppare relazioni simmetriche, dalle quali sia il brand che i consumatori potranno ottenere i maggiori risultati.


Riassumiamo alcuni punti salienti:
  • ben il 71% degli utenti condivide raccomandazioni in rete. Di questo 71%, il 2% lo fa giornalmente, l'8% ogni pochi giorni, il 19% ogni poche settimane, il 42% ogni pochi mesi.
  • Nel marketing funnel, il ruolo delle varie fonti ha un peso diverso a seconda che ci si trovi nella fase di “awareness”, “consideration” e “action”. Se, ad esempio, i blogger indipendenti possono avere un'elevata influenza nel 59% dei casi in fase di conoscenza del brand, la loro efficacia si riduce al 29% in fase di acquisto.
  • Il 29% degli intervistati ha dichiarato di avere legami coi brand su Facebook, percentuale che saliva al 36% nel caso degli utilizzatori attivi dei social network. I fan delle pagine non si limita a creare affiliazioni e a dimenticarsene: il 57% visita le pagine ogni pochi mesi o settimane, il 27% ogni pochi giorni o anche giornalmente.
  • Le pagine brandizzate o i corporate blog che hanno il maggior appeal per il pubblico appartengono alle categorie musica e intrattenimento (molto apprezzate dal 21% degli intervistati), elettronica e tecnologia (16%), vendita al dettaglio e abbigliamento (10%), viaggi (9%), casa e giardino (8%), auto (8%), servizi finanziari (5%).


Seguirà un approfondimento sui 10 step che le compagnie devono seguire per controllare i loro brand su Twitter e stabilire una presenza duratura.

25 agosto 2009

Cosa rende un'applicazione virale? Il caso di Pet Society - 2

Continuo con la mia riflessione sui motivi del successo di Pet Society, iniziata nel mio post precedente: Cosa rende un'applicazione virale? Il caso di Pet Society.

Iniziamo vedendo cosa rende un’applicazione virale.
Partiamo coi consigli di Search Engine Land.

  1. Target your audience
    Anche se Facebook è piena di teenager, il social network è in realtà aperto a persone di tutte le età. Prima di costruire un’applicazione è necessario determinare a quale gruppo demografico ci si sta rivolgendo e creare qualcosa che lo possa catturare.

  2. Think viral
    Il modo migliore per creare un’applicazione di successo su Facebook non è di spendere migliaia di dollari in marketing, ma piuttosto di realizzare qualcosa di virale. Se crei qualcosa che altri vogliano inviare ai loro amici su Facebook, allora avrai un’applicazione che sarà usata da milioni di persone. Un buon esempio è un’applicazione chiamata Zombie, dove il tuo obiettivo è di mordere quanti più amici possibili per trasformarli in Zombie.

  3. Provide value
    Chi usa la tua applicazione, deve ottenere qualcosa da quell’esperienza. Che si tratti di semplice intrattenimento o di imparare qualcosa non importa. Quando costruisci un’applicazione, non pensare solo a come ti beneficerà, ma pensa anche al valore che puoi fornire all’utente.

  4. Simplicity is the ultimate sophistication
    Un errore fatale per alcune applicazioni Facebook è di essere troppo complicate. Se richiede troppo sforzo per poter essere utilizzata pienamente, non aspettarti che molte persone usino la tua applicazione. Molte applicazioni (v. ILike) funzionano perché sono semplici.

  5. Keep an objective in mind
    Puoi anche creare un’applicazione che coinvolga milioni di utenti, ma se non ti porta benefici, a che serve? Puoi usarla per far conoscere il tuo brand, come Zombie per Rock You, o per vendere prodotti. In ogni caso tieni ben presente il tuo obiettivo quando crei l’applicazione.

All’interno dell’applicazione ci sono poi altri meccanismi che favoriscono la viralità, come i news feed o l’obbligo di invitare degli amici (da usare con attenzione). Altri consigli li trovate su www.allfacebook.com

Gli aggiornamenti che compaiono sulla propria bacheca - e di conseguenza su quella degli amici - possono servire nel stimolare gli osservatori a installare l’applicazione oppure a far ritornare gli utilizzatori nell’applicazione.

Vediamo alcuni esempi. Cominciamo con Farmville, che permette all’utente di mandare degli aggiornamenti particolarmente efficaci.

Nel primo caso, l’utente segnala che c’è un animale smarrito e invita gli amici a dargli una casa. Questo aggiornamento porta ottimi risultati perché:
  • gli animali sono fonte di reddito nel gioco;
  • l’animale indicato non può essere acquistato, quindi è particolarmente ambito;
  • il giocatore deve necessariamente entrare nell’applicazione per scoprire se ha ottenuto l’animale.
Il secondo aggiornamento è invece meno interessante per coloro che sono già giocatori ma può spingere i non utilizzatori a installare per curiosità l’applicazione. Stesso principio seguono anche gli aggiornamenti di passaggio di livello, che mirano anche a scatenare la competizione fra gli utenti.

Su Pet Society, invece, gli aggiornamenti vengono sfruttati per far conoscere le novità e spingere gli amici a giocare o iscriversi. In questo caso, l’aggiornamento fa sapere che l’amico ha preso un pesce pescando (ho scoperto così che era stata introdotta la pesca) e il tipo di pesce (utile perché, salvo spulciare nei blog a tema, non è possibile sapere quanti e quali pesci sono disponibili nel laghetto finché non sono stati catturati tutti).
Insomma, buoni esempi di trucchi per garantire la viralità.
Vi segnalo anche questo articolo sui punti cardine per rendere un’applicazione virale. Ne ho riportato un estratto anche in tumblr.

Tirando le somme, cosa ha decretato la fortuna di Pet Society?
Ecco la mia sintesi:
  • buon meccanismo di gioco alla base, che lascia spazio a innovazioni e upgrade (mondo espandibile sia in numero di utenti che in possibilità di personalizzazione);
  • capacità di motivare l’utente a richiedere l’aiuto e la partecipazione degli amici (particolarmente evidente in Country Story, altro gioco della PlayFish, dove senza amici è possibile giocare ugualmente, ma non si completano alcune quest particolarmente redditizie);
  • la possibilità di lasciare il gioco “aperto” pur dedicandosi ad altre attività, ovvero l’impegno non gravoso e attento richiesto all’utilizzatore (perfetto per i tempi morti);
  • l’incentivo a far procedere il giocatore per step, allo scopo di farlo tornare potenzialmente all’infinito;
  • il far parlare dell’applicazione e creare una comunità di appassionati che promuovono e incentivano l’uso dell’applicazione stessa (anche tra di loro);
  • aggiungere elementi disponibili solo a pagamento, per aumentare la redditività dell’applicazione.

Oltre a questo, un dettaglio mai irrilevante: serve un ottimo team e tante risorse. Un’applicazione come Pet Society, con un gigantesco database, richiede server potenti e manutenzioni continue. Senza contare gli sviluppatori, i grafici e i copy impegnati nell’ideazione e nella realizzazione degli oggetti che ogni settimana vengono aggiunti. L'investimento economico non è trascurabile.
Ovviamente anche un’applicazione semplice potrà diffondersi a macchia d’olio e portare grandi risultati con un investimento ben più contenuto, forse solo temporale (soprattutto se si sfruttano i server di Facebook). Ma il successo di applicazioni come Pet Society è legato alla sua elevata espandibilità e personalizzazione. E queste si possono ottenere solo investendo notevoli risorse.

21 agosto 2009

Cosa rende un'applicazione virale? Il caso di Pet Society


Conoscete Pet Society? Se non ne avete mai sentito parlare, siete ormai una minoranza. Pet Society è un’applicazione per Facebook sviluppata dalla PlayFish, con 15.573.429 di utenti attivi al mese e 1.114.614 fan. Non male per un gioco neppure troppo originale (è una versione semplificata e social di The Sims).
Ovviamente ha degli innegabili punti di forza: una grafica carina, adorata soprattutto dal pubblico femminile; continue espansioni che stimolano a proseguire nel gioco; elevata possibilità di personalizzazione; buona funzionalità e stabilità del sistema (pur con qualche baco mai risolto).
È stata inoltre una delle prime applicazioni di Facebook in grado di “generare dipendenza”. Gli altri giochi, anche quelli della stessa PlayFish, hanno spesso il limite di essere un buon intrattenimento occasionale: si fanno un tot di partite, magari si batte il punteggio dell’amico, e poi finiscono nel dimenticatoio. Pet Society è un’applicazione da medio-lungo periodo. All’inizio hai ben poco da fare. Il divertimento (chiamiamolo così) arriva proseguendo, con l’aumentare dei livelli, delle stanze arredabili e dei soldi raccolti.
In breve questo gioco è diventato un vero e proprio cult. Ci sono decine e decine di blog “verticali” dedicati all’argomento, pieni di anticipazioni, recensioni e dettagli che certi corporate blog si sognano.

Ma perché tanto successo?
Inizio la mia analisi con una considerazione personale. Conosco moltissime persone che hanno scoperto i videogames attraverso Facebook. Il loro entusiasmo per dei giochi clonati neppure troppo bene da vecchi arcade è incomprensibile per chiunque sia entrato almeno una volta in una sala giochi (per non parlare poi dei fortunati possessori di un Commodore 64). È il caso ad esempio di Biotronics, considerato geniale e originalissimo da chiunque ignori da 20 anni l'esistenza di un grazioso giochino chiamato Columns (uscito, appunto, nel 1989). I fan di Columns avranno avuto sicuramente un approccio diverso nei confronti di Biotronics: di stupore ("toh, chi si rivede!"), nostalgico ("ricordo quando ci giocavo dopo la scuola..."), annoiato ("l'ennesimo rifacimento di Columns, non se ne può più!"), melodrammatico ("come hanno potuto ridurlo così??!!"). In ogni caso, non avranno considerato Biotronics un'intuizione geniale, se non nella sua applicazione all'universo Facebook. L'avranno apprezzata nella sua veste di bella rielaborazione, giocabilissima e ben realizzata.

Biotronic però ha ben poco a che spartire con Pet Society. Biotronic non fidelizza e non stimola a tornare e ritornare nell'applicazione. Ci si può porre un obiettivo, come battere il punteggio di un amico, si può tornare nell'applicazione nel caso si sia stati scalzati dalla top ten o si voglia fare una partita, ma non s'innesca un vortice di curiosità e interesse (anche nel creare delle comunità) come in Pet Society. In Pet Society quello che si cerca di creare è un mondo, sempre più ricco, personalizzato e accogliente. E lo si può fare solo con molta pazienza e buona volontà (o soldi veri, per acquistare subito quello che si potrebbe ottenere dopo molto tempo).

Le relazioni sociali all’interno di Pet Society sono abbastanza limitate. Non fate qualcosa con gli amici. Semplicemente gli amici vi aiutano a raccogliere più soldi. Altri giochi in Facebook limitano gli amici a “punteggi” (vedi Biotronic) per scatenare una sorta di competizione. La competizione è un buon meccanismo virale; ormai ce lo schiaffano in quasi tutte le applicazioni, anche quelle in cui appare inutile.
Comunque sia, la socialità nelle applicazioni Facebook che ho esaminato è abbastanza limitata. Niente a che vedere con altri giochi online che permettono agli utenti di sfidarsi in tempo reale o di unire le loro forze per completare i livelli. In Facebook non ho trovato nulla per il momento che preveda dei meccanismi simili alle partite da remoto.
Cito l’esempio di The Caverns of Hammerfest, un platform online a cui mi sono iscritta più di un anno e mezzo fa.

Il funzionamento di Hammerfest (dal nome di una cittadina norvegese particolarmente fredda, sullo stemma è riportato un orso polare...) è semplicissimo e chiunque sia stato ragazzo negli anni Ottanta lo coglierà all’istante: è quasi come giocare a Bobble Bobble, solo che al posto del draghetto che sputa bolle troviamo un pupazzo di neve crudelmente privato del naso di carota che lancia palle di neve.
Hammerfest è stato realizzato da Motion Twin, società francese che apprezzo particolarmente per l’originalità e la qualità dei suoi lavori (a livello grafico, di sviluppo e soprattutto di manutenzione). Il meccanismo iniziale era il seguente: all’attivazione dell’account avevi un numero limitato di cristalli, ovvero partite - 5 per l’esattezza -, che potevi ampliare prendendo particolari oggetti che trovavi sul tuo cammino. Se avevi la sfortuna di non incontrare quegli oggetti, oppure di non riuscire a prenderli, non avevi più modo di giocare, salvo acquistare (comprare via paypal) altre partite. L’alternativa era resettare l’account e ripartire da 0 (buttando alle ortiche virtuali tutta una serie di bonus, tra i quali un numero maggiorato di vite, che avevi ottenuto in precedenza).
Ovviamente a pagamento potevi giocare quanto volevi. Con 5 euro si potevano acquistare 25 credits più altri 4 in omaggio ogni settimana. La Motion Twin probabilmente non aveva ancora messo in conto che esiste gente così taccagna da preferire infiniti reset a una spesa di 5 euro. Oppure ha fatto un tentativo. Io, che sono taccagna e pure pigra, al terzo reset mi sono stancata e ho lasciato l’applicazione nel dimenticatoio per un anno. Poi, una sera, per caso, in un gioco Motion Twin (uno dei tanti che ho provato) ho ritrovato il link ad Hammerfest. Ho aperto il mio account e – miracolo – ho trovato una partita! A distanza di un anno il gioco è stato migliorato sotto molti aspetti, tra i quali il token gratuito ogni mezzanotte.
Ora mi sento di consigliarlo agli amanti dei platform. Ma anche questo non ha nulla a che fare con Pet Society, sia per il suo utilizzo “esclusivo” (per i minuti della partita – e solo per quelli - non ci si può distrarre), sia per i diversi meccanismi relazionali alla base (non sono richiesti amici, ma c’è la possibilità di giocare in multigiocatore sullo stesso computer).
Anche attorno ad Hammerfest si è creata una comunità - soprattutto per lo scambio di consigli e soluzioni alle quest - ma è una sorta di centro assistenza/scambio consigli. I forum di Pet Society sono ben diversi, sono delle vere comunità create attorno all'amore per un gioco che ha conquistato una fetta consistente del proprio tempo. I pet diventano dei biglietti da visita per gli utenti; le case lussuosamente arredate oggetto di vanità, competizione e riconoscimento reciproco. Basta a spiegare il successo dell'applicazione?
Continua...

19 agosto 2009

Breve guida alla cucina giapponese - 2

La cucina giapponese - sembra scontato dirlo - va ben oltre gli ormai conosciuti sushi e sashimi (leggi la guida al sushi). Non a caso, molti turisti in vacanza nel Sol Levante restano interdetti davanti alla varietà e alla complessità della cucina tradizionale. L’organizzazione nazionale del turismo giapponese ha quindi pensato di tendere la mano ai suoi ospiti stranieri con una guida ai complessi cibi autoctoni perché, si spiega, “mangiare in Giappone diventi un’esperienza piacevole da ricordare con soddisfazione per il resto della vita”.
Sukiyaki

È cucinato direttamente al tavolo unendo sottili fette di manzo a verdure, tofu e vermicelli
Tempura


Cibo rivestito da una mistura di uova, acqua e farina di grano fritto in olio vegetale. Tra gli ingredienti usati gamberetti, pesce di stagione e verdure.

Sushi


Un piccolo pezzo di pesce crudo adagiato su una polpetta di riso trattato con aceto. Gli ingredienti più comuni sono il tonno, i calamari e i gamberetti
Sashimi


Sottili strisce di pesce crudo da mangiare intinte nell’olio di soia
Kaiseki Ryori

Cibo dal sapore raffinato – tanto da essere considerato il migliore della cucina giapponese - composto principalmente da vegetali e pesce con una base stagionale di alghe marine e funghi

Yakitori


Piccoli pezzi di carne di pollo, fegato e verdure infilzati su bastoncini di bambù e cotti sui carboni ardenti
Tonkatsu

Carne di maiale arrotolata nel pangrattato e fritta
Shabu-shabu
Sottili e morbidi pezzi di manzo riuniti su bastoncino di bambù, rimestati in una pentola d’acqua bollente e intinti nella salsa prima di essere mangiati

Soba e Udon
Due tipi di noodle giapponesi. Questi parenti alla lontana delle tagliatelle nostrane sono ricavati da un impasto di farina, nello specifico grano saraceno per il soba e grano semplice per gli udon.
Sono serviti in brodo o asciutti da intingere nella salsa, in decine di abbinamenti diversi.



Una curiosità prima di chiudere questo post, lungo ormai come un rotolo Tenderly...
Vi ricordate i dolcetti bianchi e neri che sempre si vedono nei cartoni animati giapponesi? Qualsiasi appassionato di anime li avrà visti più di una volta. Da piccola pensavo fossero dei dolcetti di farina bianca e cioccolato... in effetti li avevo adeguati alle mie abitudini alimentari. Se mi avessero spiegato che quella che mi sembrava cioccolato era in realtà un'alga, mi sarei rifiutata di crederci: come potevano mangiare con tanto gusto e soddisfazione un'alga?



Su Youtube si trovano molte video-ricette di onigiri (od omusubi), che per la cronaca sono delle polpette di riso variamente condite (anche con prugne), decorate da un'alga nori che le rende più facilmente impugnabili.
In Giappone sono amatissime: basta fare una ricerca per scoprire quanto amore dedicano alla loro preparazione... e per trovare gadget di ogni sorta a loro ispirati(dai peluche emoticon ai cuscini, dalle pochette agli orecchini).


In conclusione, per chi volesse tentare la preparazione, una videoricetta (occidentalizzata, nel sushi non ci va ragù o maionese).

Breve guida alla cucina giapponese - 1

Ultimamente il sushi è diventato parte integrante della mia alimentazione bisettimanale. L'altra sera, mentre stavo cercando di capire cosa avessi comprato nel banco frigo nipponico dell'Esselunga (perché tra gli ingredienti comparivano 2 tipi diversi di alga e riconoscevo solo la nori?), mi sono ricordata di una breve guida che avevo scritto qualche tempo fa. E che mi ero dimenticata di pubblicare. Da brava pigra quale sono, odio lasciare i lavori chiusi in un cassetto, è uno spreco di energie. Ecco quindi la mia guida alla cucina giapponese. Me la rileggerò prima di tornare all'Esselunga...

Partiamo col sushi, che mi crea sempre crisi mnemoniche.
Come si chiama il rettangolino di riso col pesce sopra? E il cilindretto con l'alga?
Ecco qualche immagine particolarmente utile per chiarirsi le idee:



Per altre di queste immagini, vi rimando al sito Japanese Food. Per altri dettagli, leggete la voce sushi sulla buona vecchia Wikipedia (purtroppo le immagini sono scarse).

Continua a leggere la seconda parte della guida alla cucina giapponese.

15 agosto 2009

"La vita è tutta un click" anche su Tumblr

Ultimamente non ho avuto molto tempo a disposizione per aggiornare il blog. Un vero peccato, perché mi erano capitati tra le mani un sacco di link interessanti che avrei voluto condividere (e appuntarmi). In fin dei conti il mio blog è nato proprio per questo: per annotarmi dei link che sapevo mi sarebbero tornati utili in futuro, o che avrei potuto avere la necessità di ri-utilizzare. Quando poi, con non poca sorpresa, ho scoperto di avere un numero di lettori variabile tra i 200 e i 500 al giorno, mi sono resa conto che il mio blocco virtuale degli appunti non era usato solo da me, e che potevo non solo appuntar(mi) pensieri, citazioni, link, ma anche condividerli.
Da quando utilizzo delicious il ruolo di questo blog è ulteriormente cambiato. Per quei link che - per varie ragioni dettate dalla praticità - non volevo annotarmi in delicious utilizzavo Facebook. Nelle ultime settimane mi sono però resa conto di quanto mi servisse uno strumento più adeguato per tale attività di un social network in cui si mescolano link degni di nota a osservazioni del tipo "oggi la metro era vuota, miracolo!" oppure "sono spapparanzata al sole".
Ho quindi attivato un account Tumblr e ho risolto il problema. In futuro spero di riuscire a integrare meglio questi tre strumenti: blog (che è comunque la mia "casa" virtuale, delicious (il mio database) e tumblr (il mio svuotatasche).
Gli aggiornamenti del blog si faranno meno frequenti, ma quando ci saranno mi auguro siano più curati e completi di quanto abbia fatto ultimamente. Tumblr invece sarà aggiornato più frequentemente (se continua come nell'ultimo periodo, potrei aggiornarlo 5 o 6 volte al giorno). Ho tolto dal blog l'account Twitter, che per un certo periodo ho usato per appuntarmi alcuni link. Ora lo riporterò alla sua vocazione originaria di banale "cosa sto facendo". Non credo a molti interessi che io abbia bruciato la cena o che il gatto mi abbia buttato giù dal letto in preda a un'attacco di solitudine.
Sto facendo una full immersion nel mondo dei social media. Spero di uscirne temprata e con un post approfondito. Purtroppo l'evoluzione è così rapida che si fa fatica a stare al passo...

Questo post di servizio mi è anche utile per augurare a tutti buone vacanze estive.
Utilizzerò il pet creato in Pet Society (a breve spero di riuscire a scrivere un post sugli elementi che rendono un'applicazione altamente virale e sulla crescita della Playfish che sta ottenendo un successo dietro l'altro. Ah, stanno anche assumendo nuovi sviluppatori, in periodo di crisi loro sono in controtendenza).
Buone Ferie!

13 agosto 2009

Il caso del Seat 29E


Vi faccio ripercorrere i miei stessi passi. Guardate il corto che ho inserito in apertura. E' una breve animazione che è stata recentemente trasmessa sul canale digitale di QOOB. Visto? Bene, immagino che ora, come me, vi stiate domandando se abbia un fondamento di verità.

Sappiate che non è una leggenda metropolitana. Negli Stati Uniti la geniale lettera scritta dal passeggero esasperato dal viaggio davanti alla toilet dopo aver sborsato 400 dollari per il biglietto aereo, ha fatto storia. E' diventata un vero e proprio cult. In molti hanno dibattuto sul fatto che, negli aerei, "chi prima arriva, meglio alloggia" (o siede, in questo caso). In molti hanno riso e si sono riconosciuti nel povero viaggiatore.
C'è anche chi ha provveduto a far circolare le scansioni del testo originale.

Sull'enciclopedico Snopes.com (che i cacciatori di bufale ben conoscono) è riportata la lettera per intero e una spiegazione della vicenda. Ecco la storia del Seat 29E secondo Snopes.com.
Immagino lo stato d'animo di chi l'ha scritta. Mi figuro un passeggero annoiato, con carta e penna in mano, pronto a scrivere fino al momento in cui si dovrà alzare per scendere dall'aereo. La lettera è quasi trascinata, un po' come si trascina, tra fastidi e disagi, un viaggio davanti ai bagni.

Tra una lamentela e una battuta di spirito, questo sarcastico passeggero ha colto nel segno: valeva la pena, per guadagnare un posto a sedere, condannare un cliente a un viaggio così imbarazzante?

Ho trovato davvero contraddittoria la reazione della Continental Airlines. Chiede scusa al viaggiatore ma non toglie il posto a sedere. Ha senso ammettere l'errore (ovvero scusarsi) ma non porvi rimedio?

Su Snopes.com scopriamo qualcosa in più rispetto a quanto ci viene detto dal corto.
Contattata dalla redazione, la compagnia aerea ha confermato di aver ricevuto la lettera (ribadiamolo, è tutto vero, il corto non è frutto di una sceneggiatura ed è questa autenticità che ha trasformato una lettera di lamentele in un cult degno di una trasposizione filmica) ma non ha voluto parlarne, definendo le informazioni "riservate". Sempre Snopes.com ricorda che l'editorialista del Chicago Tribune Eric Zorn il 22 luglio 2005 ha avuto una conferma dell'autenticità della lettera da un portavoce della Continental:
"La lettera non è totalmente precisa e usa il sarcasmo per far apparire il posto peggiore di come è in realtà. Ma non vogliamo deridere la preoccupazione di questo cliente - il posto 29D (n.d.r. ma non era il 29E?) non è l'ideale. La maggior parte dei voli non sono tutti sold out e normalmente possiamo far spostare i clienti che preferiscono non sedere in questo posto. Comunque, il volo del 21 dicembre era completamente pieno e noi ci siamo scusati con il cliente che ci ha inviato le lamentele. Se ci fosse stata una veloce e facile soluzione a questo problema, l'avremmo risolto all'istante. Comunque, la configurazione dell'aircraft è fissa e c'è poco che possiamo fare a questo punto per far sparire il problema".

In realtà basterebbe non assegnare mai quel posto, o almeno, al momento della prenotazione, avvisare il possibile viaggiatore. Questo costerebbe meno di rifare nuovo l'aereo.

Non credo che la compagnia aerea abbia gestito a dovere la critica.
Oggi, mentre ero in metropolitana, stavo leggendo "[mini]marketing - 91 discutibili tesi per un marketing diverso" di Gianluca Diegoli. E' stato scritto un anno fa, ma se le aziende continuano a vedere la comunicazione come qualcosa di accessorio, da fare se e quando c'è budget e comunque sempre su binari certi e sicuri, resterà a lungo un'opera di preveggenza.
Cito la tesi 72:
La vostra reputazione non dipende da quanti sbagli fate. Ma da che tipo di sbagli fate, e da come rispondete a chi ve lo fa notare.


La risposta della Continental Airlines non è stata delle migliori. La fama del posto 29E ci ricorda cosa non deve fare una buona comunicazione di crisi: ignorare l'evento scatenante presentandolo come "proprietary" e sminuirlo qualora lo si prenda in considerazione.

27 luglio 2009

Come far durare più a lungo un tatuaggio

Di recente in pausa pranzo si è discusso di tatuaggi. Una collega raccontava di non aver il coraggio di ripassare il tatuaggio che ha sul piede perché si ricorda ancora a distanza di anni il male che le aveva causato la realizzazione.
Il tatuaggio che ho sul polso ha più o meno la stessa età del suo (viaggiamo sul decennio) ma è molto più nitido e definito.
Poniamo caso che il tatuatore faccia uno splendido lavoro, utilizzando i migliori materiali nel massimo rispetto delle norme igieniche. Poi che succede? Succede che da quel momento in poi la sopravvivenza del vostro tattoo dipende solo da voi.

Ho provato a fare una ricerca in internet (con lingua italiana) e sono rimasta stupita di quanta poca letteratura ci sia sull'argomento. In tutti i link che ho aperto non si parlava della "manutenzione" del tatuaggio, se non nel periodo immediatamente successivo alla realizzazione. I soliti consigli che chiunque abbia fatto un tatuaggio sa molto bene: tenerlo pulito, idratato, non staccare le croste, non fargli prendere sole per i primi mesi, ecc. ecc.
E dopo i primi mesi che si fa? Ho trasferito la mia ricerca su Google.com e ancora una volta sono rimasta stupita dalla scarsezza di risultati.
In compenso ho scovato una valanga di immagini curiose...


Dopo lunghe ricerche, ho trovato quello che cercavo. Mi sono quindi decisa a scrivere un post sull'argomento, sperando possa essere utile a tutti coloro che vogliono mantenere vivido il più a lungo possibile il loro tatuaggio. Un post "di servizio" ( chiamiamolo così) sulle tecniche "antinvecchiamento" per tatuaggi.

Consiglio n° 1: scegliete con cura il punto in cui farlo
Col passare degli anni il corpo si modifica: cellulite, cuscinetti, smagliature, rughe... è l'ineluttabile scorrere del tempo. Un tatuaggio collocato su polsi, piedi, caviglie, polpacci, e - in misura minore - bicipiti e schiena rischia meno di mutare forma e aspetto. Lo stesso non si può dire di pancia, stomaco, glutei o cosce...

Consiglio n° 2: tanta idratazione
Il tatuaggio è parte integrante del nostro corpo, a differenza di un piercing, e col tempo cambia forma e aspetto: si dilata, si restringe, si raggrinzisce e arriva a sembrare spento e "stanco". Col passare degli anni la pelle infatti diventa più secca, con inevitabili effetti sul tatuaggio. Nulla di grave, basta applicare regolarmente crema idratante.

Consiglio n° 3: mantenere il corpo tonico e in salute
Sembra ridicolo un consiglio simile: la cura del proprio corpo dovrebbe essere buona norma anche per coloro che non hanno un tatuaggio.
Diciamo però che se avete preso o perso peso o tono muscolare, è scontato che il vostro tatuaggio abbia cambiato aspetto. Alimentazione regolare, riposo ed esercizio fisico manterranno in forma corpo e - con lui - tatuaggio.

Consiglio n° 4: evitate il sole
I raggi UV possono danneggiare la pigmentazione del tatuaggio. Questo è particolarmente evidente nelle due settimane appena successive alla realizzazione di un nuovo tatuaggio, ma il rischio si mantiene per tutta la sua vita.
In generale comunque la pelle dovrebbe essere protetta dal sole. Ma nel caso del tatuaggio il fattore protettivo dovrebbe essere almeno pari a 30. Ancor meglio degli indumenti di stoffa leggera. Ma tra un tatuaggio da ripassare e una vita in maglietta al mare, forse è preferibile la prima opzione...

Consiglio n° 5: mettete in conto di farlo ripassare prima o poi...
Quasi tutti i tatuaggi perdono un po' del brillante colore iniziale. Non è evitabile, dal momento che a renderlo leggermente meno marcato è lo stesso sistema immunitario che combatte il materiale estraneo immesso nel corpo (ovvero l'inchiostro). Ringraziatelo, se il vostro sistema immunitario non si comportasse in questo modo, avreste dei problemi ben più grossi di un semplice tatuaggio scolorito.


In conclusione, potrebbe essere necessario fare visita ogni tot anni al vostro tatuatore. Ma visto che a volte non si tratta propriamente di una visita di piacere, cercate di prendervi cura del vostro tatuaggio...

25 luglio 2009

Domini, vita dura col Decreto Sviluppo

Ieri è stato pubblicato su Repubblica un articolo dal titolo "Attenti a registrare un sito web, è carcere se vìola un marchio".
Il giornalista concludeva dicendo:
"In rete ci si ricorda ancora della vicenda di Luca Armani, che registrò il dominio Armani.it per il proprio timbrificio e che poi un giudice costrinse a cedere al più famoso Giorgio Armani. Forse, con questa nuova legge, le cose sarebbero andate peggio per Luca".

Faccio una verifica dei marchi Armani. Wikipedia non è la Bibbia, ma almeno è un punto di partenza. Non ne trovo nessuno che si chiami solo "Armani".
Vado sul sito giorgioarmani.com, alla sezione Legal e leggo:
In particolare, le denominazioni ed i marchi "Giorgio Armani", "Emporio Armani", "Armani Jeans", l’aquila stilizzata con le lettere GA e tutti gli altri marchi che includono la denominazione "Armani", registrati o non, sono e rimarranno di esclusiva proprietà del Gruppo Armani e ne sono espressamente proibite, per qualsiasi ragione o scopo, la riproduzione, la distribuzione, la pubblicazione, la trasmissione, la modifica in tutto od in parte, nonchè la vendita.

Il bold l'ho aggiunto io.
Mi pare di capire che qualsiasi marchio, registrato o meno, che contiene la parola "Amani" diventi automaticamente di proprietà del Gruppo Armani.
Da quanto è scritto parrebbe che io possa registrare il mio nome, ad esempio "Claudia Armani", per poi scoprire che non appartiene a me ma a Giorgio Armani.Un po' come l'asso che piglia tutto.

Torniamo alla questione attuale, dei domini.
Mi sono domandata perchè, secondo il giornalista, a Luca Armani sarebbe andata peggio alla luce del decreto Sviluppo (e stiamo dando l'appellativo di "Sviluppo" a un decreto che metterebbe nei guai un onesto lavoratore).
Punto Informatico lo spiega molto bene:
L'intero meccanismo dei marchi e dei nomi di dominio è destinato ad entrare in crisi a seguito dell'approvazione di questa norma.
Chi registrerà un marchio qualsiasi sarà esposto di per sé ad una possibile responsabilità penale.
Va ricordato infatti che l'ufficio italiano brevetti e marchi non opera alcuna ricerca obbligatoria sui marchi preesistenti e che i marchi possono essere oltreché identici anche simili (la stessa cosa avviene peraltro anche per la registrazione dei nomi a dominio), questo significa che nessuno si azzarderà più a registrare un marchio se non dopo costose ricerche che verranno effettuate (nella latitanza delle istituzioni pubbliche) da soggetti privati e non pubblici, con rilevanti possibilità di errore.
.
Per saperne di più leggete l'articolo Il Decreto Sviluppo si abbatte sui domini.
Sempre nel decreto Sviluppo c'è una norma contro i software piratati in azienda.
D’ora in avanti una società potrà essere condannata - oltre che in sede civile con le sanzioni del risarcimento del danno e dell’inibitoria - anche in sede penale amministrativa, con sanzioni fino a circa 775.000 euro, e interdittive: per esempio con la sospensione dell’autorizzazione o il divieto di pubblicizzare i prodotti fino a un anno.

Questa semplice misura, senza in parallelo altre azioni volte a sostenere i software opensurce o sostegni per l'acquisto di software proprietari avanzati, mi sembra un bel modo per fare regredire la già ridotta informatizzazione delle aziende...

Giappone, tra utopie animate e realtà

Sto guardando un video-collage dei migliori cosplay made in Japan. E' sempre divertente vedere fin dove possono spingersi i fan più organizzati. Una dimostrazione che gli anime/manga sono oggetti di culto, quasi una religione, non semplici passatempi per ragazzi. Mi domando se per le strade giapponesi sfilino spesso persone mascherate da Sailor Moon o da Lady Oscar. Del resto, dopo le ragazzine così kawai da causare alla loro apparizione conati a tutti obiettori del rosa shocking, le divine gothic lolita e le multiformi Harajuku Girls, ci si può aspettare tranquillamente che un giapponese vestito da Hello Spank cammini senza dare nell'occhio tra le strade di Tokyo. Dopo la visita del team di Jackass (con l'imbarazzante Party Boy a mostrare natiche a destra e a manca) penso che sia difficile stupire gli abitanti della metropoli.
A Milano l'altro giorno un gruppetto di gothic lolite ha "sfilato" in via Torino. Devo dire che davano nell'occhio. In Giappone non credo. Nell'immagine che ho io del Giappone (e che spero di conservarmi a lungo) donne in abiti tradizionali e ragazzine vestite come una cameriera inglese dell'Ottocento convivono pacificamente, magari sorridendo sotto i baffi (o con la vezzosa manina davanti alla bocca) per l'altrui abbigliamento.
In realtà non mancano occasioni perché la realtà mi rovini questa patinata immagine del Giappone, elaborata in anni e anni di rimbecillimenti da anime anni Settanta e Ottanta (qualcuno è pronto a dirmi che nelle periferia di Tokyo non c'è una pensione di due piani in legno come la Maison Ikkoku?).
La vita nelle città giapponesi dev'essere abbastanza caotica e... affollata. E' risaputo che le case sono estremamente piccole, i prezzi dei metri quadri nelle città raggiungono cifre astronomiche e quindi gli spazi vitali si riducono. Dev'essere difficile essere claustrofobico in Giappone. Io ad esempio non riuscirei mai a passare la notte in una tiny room, i sarcofagi non sono il posto che prediligo per riposare...

Sono così indaffarati che mandano bebé di riso ai parenti, in attesa di trovare il tempo per portargli il neonato vero in visita.
Non parliamo poi della metropolitana. Se esistesse una scala di misura dell'affollamento (fino al limite dell'umana tolleranza, ovvero appena prima della perdita di coscienza per asfissia, esasperazione o fumenti da sagra dell'ascella imbarazzata), il livello ultimo dovrebbe chiamarsi "Tokyo, ora di punta". Basta fare una breve ricerca immagini per capire che nelle metropolitane giapponesi si diventa per forza di cose "intimi".
E qui arriviamo a un nuovo problema, quello delle molestie. Già negli anni '20 erano stati istituiti dei treni "rosa": gli "Hanadensha", o "Flower trains", riservati alle sole donne, per eliminare il problema degli sguardi insistenti e sfacciati degli uomini. I tempi però sono cambiati e gli uomini sembrano non accontentarsi più di guardare e non toccare. Negli anni '80 i flower trains hanno fatto la loro ricomparsa, questa volta per limitare i palpeggiamenti facilitati dal sovraffollamento. Coloro che approfittano della folla per molestare le donne sui mezzi pubblici vengono chiamati "Chikan". Nel 2007 (spero che l'anno sia corretto) dei 1.897 casi di crimine commessi nella metropolitana di Tokyo, 1.886 erano denunce per molestie sessuali su carrozze affollate. Questo è il video da cui ho tratto questi dati (e ho dato un nuovo significato alla parola "affollamento").

Ma perché mi sono trovata a scrivere un post sul Giappone? Come dicevo all'inizio, stavo riflettendo sui cosplay e sugli abiti-costumi tanto cari ad alcune ragazzine nipponiche. Mi sono ritrovata a leggere un titolo davvero curioso (e datato):
Giapponesi travestiti da distributori automatici
. Mi sono subito immaginata ragazzine kawaii che abbandonano le gonnelline puffose e colorate per vestirsi da macchina distributrice di caramelle o di ovetti Hello Kitty. Invece no. E' una difesa contro le aggressioni (non così frequenti in Giappone ma sufficienti a generare ansia crescente tra le ragazze più emancipate).



L'inventrice si chiama Aya Tsukioka (nella foto mentre si "trasforma") e ha detto di essersi ispirata alla tecnica mimetica dei ninja. In effetti le donne vengono molestate perché vengono notate. Alle donne che girano sole di notte viene spesso consigliato di "camuffarsi", rendersi il meno femminili possibile (anche sputando a tempo perso sul pavimento) e soprattutto essere anonime. Trasformarsi in un distributore di bibite è solo il passo successivo (la Coca Cola pagherà lo spazio pubblicitario?).
E per le mamme giapponesi che temono per l'incolumità dei pargoli? C'è la versione "buca delle lettere", che però copre ben poco...

La versione per bambini dev'essere ispirata al mimetismo detto "del gatto domestico", che nasconde la testa, lasciando completamente esposto corpo e coda, ma si crede ugualmente "invisibile". La soluzione "baby" mi sembra davvero discutibile: una cassetta della posta munita di gambe, jeans e scarpe da ginnastica farebbe fermare anche il passante più distratto...
Queste e altre chicche (come l'improponibile borsa-tombino) le trovate in questa gallery del New York Times dal titolo Urban Camouflage.

Il problema delle aggressioni ha di nuovo intaccato la mia utopia Giappone, facendolo decadere a Paese reale, coi suoi disservizi, i suoi debiti, i suoi problemi di convivenza e i suoi crimini.
Però, a pensarci bene, anche le ombre di questa nazione hanno un retrogusto dolce e inaspettato: a chi potrebbe venire in mente, se non a un giapponese, di travestirsi da distributore automatico per sfuggire a un molestatore?