Lo spazio Oberdan ospiterà ancora per alcuni giorni la mostra "Rumore: un buco nel silenzio". Un'interessante recensione dal titolo "Da russolo a yoko ono
quando l'arte fa rumore" è comparsa su Repubblica a firma di Barbara Casaveccia. La riporto integralmente, per poterla ritrovare anche in futuro:
«Il silenzio non esiste: succede sempre qualcosa che produce un suono». Il padre del movimento Fluxus e dell'arte concettuale, John Cage, spiegava così il suo celebre brano muto 4' 33'': una «pausa» che costringe il pubblico a concentrarsi sui fruscii, i respiri, i battiti del cuore resi evidenti dall'assenza di musica. Ad affinare, insomma, la capacità d'ascolto. La mostra Rumore: un buco nel silenzio, che s'inaugura oggi alle 18 allo Spazio Oberdan, rivolge agli spettatori lo stesso invito a prestare attenzione alla propria «colonna sonora», giocando coi livelli di volume.
Curata da Giacinto Di Pietrantonio, è una versione ridotta - e ritagliata su misura per i volumi sempre un po' claustrofobici della Provincia - di una collettiva allestita in Belgio l'estate scorsa, in occasione del festival di poesia di Watou organizzato da Gwy Mandelinck. A ognuna delle 22 opere è abbinato (a parete) il testo di una poesia, da Pessoa a Sbarbaro, suggerendo un dialogo possibile, ma a «parlarsi» sono anche molti lavori. S'inizia fuori, davanti all'ingresso, con un duetto tra i versi di Nel silenzio di Montale (Oggi è sciopero generale /nella strada non passa nessuno…) e Conductor di Kris Martin, una bacchetta da direttore d'orchestra fissata al ramo di un albero, mossa a caso dal vento. Lungo le scale, invece, rimbomba Risveglio di una città (1914) del futurista Luigi Russolo, teorico dell'Arte del Rumore e pioniere di tanta musica sperimentale novecentesca. Rendono omaggio alle ricerche Fluxus anche gli ironici «pianoforti preparati» riuniti nel salone (provenienti da una mostra del '90 alla Mudima, Pianofortissimo), firmati da Cage, La Monte Young e Giuseppe Chiari, mentre Yoko Ono traduce in scultura una sua vecchia canzone, We are all water.
La mitica performance di Joseph Beuys e il coyote del '74 è incastonata tra The American Desert di Mungo Thomson (che cancella dai cartoni di Wile Coyote e Bip Bip protagonisti e voci) e Deeparture di Mircea Cantor, che al contrario, filma un'altra coppia predatore/preda in una stanza bianca e vuota. Avanzano in silenzio i video poetici di William Kentridge e Marcel Brodthaers, mentre i colpi con cui Jimmy Durham lapida un frigorifero, emblema opulento della società dei consumi, e il ronzio dei generatori accesi da un gruppo di disoccupati albanesi, ritratti da Adrian Paci, scatenano ondate cacofoniche. Nelle salette laterali, si confrontano due giovani artisti italiani: Diego Perrone, con La Stanza dei Cento Re che Ridono, una «quadreria» di dipinti celebri ritoccati digitalmente, e Lara Favaretto, che da una scatola nera fa scaturire Una risata che vi seppellirà (Omaggio a Gino De Dominicis).
Nel film in 16 mm di Jordan Wolfson, il discorso che Chaplin pronuncia al termine de Il Grande Dittatore viene tradotto in linguaggio «muto» per non udenti, mentre il commovente The Hand di Melik Ohanian assembla nove monitor, che inquadrano altrettante coppie di mani, callose e tormentate. Girato in Armenia nel 2002, racconta così le vite dei loro possessori, rimasti senza lavoro dopo il crollo del blocco sovietico.
La mostra mi ha lasciata perplessa. Guardando la gallery riportata su Repubblica ho capito anche il perché. Gli spazi della Provincia sono troppo limitati per una rassegna così intima ed eterogenea. Come poter apprezzare dei filmati tra loro diversissimi eppure riuniti nella stessa stanza, con l'audio di uno che va a sovrapporsi a quello dell'altro? L'attenzione viene distolta dai troppi stimoli visivi e l'udito non riesce a isolare i singoli suoni. Non svolgono al meglio il loro compito neppure gli altoparlanti, che rendono le risate dell'omaggio a Gino De Dominicis talmente metalliche da essere confondibili con uno starnazzare di polli in batteria. Poco spazio per l'arte, ancor meno per la riflessione che opere di questo livello avrebbero meritato. Peccato, al giorno d'oggi si sente il bisogno di assaporare il silenzio e i suoni che sanno infrangerlo con violenza o poesia. Si sente anche il bisogno di spazi dedicati, isole risparmiate dal caos moderno, in cui rimanere un po' a contatto con se stessi. Peccato davvero. Un'occasione decisamente mancata...
Shirin Neshat
''Shoja'', 1998
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